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giovedì 30 gennaio 2014

DALLAS BUYERS CLUB di Jean-Marc Vallèe











La storia vera di Ron Woodroof, tra voglia di vivere ed  interessi economici.  


Voto ***       7
                 
                  
Ron Woodroof (Matthew McConaughey) è un elettricista che vive le sue giornate affaccendato tra rodei e scommesse, cercando di far cadere le donne nel suo letto ed ingurgitando droghe ed alcool. 

Poi un bel giorno crolla in terra e i medici dell'ospedale gli dicono che ha contratto il virus dell' “H.I.V.” ed ha “trenta giorni al massimo per sistemare le sue cose”.

Ron però non si arrende e, lottando contro interessi politici ed economici, metterà in piedi, tra varie difficoltà, un “club di compratori” (cittadini-malati si iscrivono e diventano soci, conseguendo il diritto a ricevere un kit di farmaci pro-capite).

Dallas Buyers Club” di Jean-Marc Vallèe è tratto da una storia vera ed ha come protagonista un Matthew McConaughey talmente innamorato e "devoto" alla sceneggiatura (di Craig Borten e Melissa Wallack) da essersi sottoposto per mesi ad una dieta ferrea, dimagrendo oltre venti chili per divenire estremamente credibile nel suo ruolo.   

La pellicola è ambientata agli inizi del dilagare dell’ A.I.D.S. come “paura di massa”: è il 1985, l’anno in cui morì Rock Hudson.

Con buon senso d'equilibrio Vallèe riesce a tenere a bada gli eccessi del prorompente e rinato McConaughey (una vera e propria seconda carriera dopo il “Killer Joe” di Friedkin) ed anche a non enfatizzare troppo la parte del racconto che riguarda i grandi interessi di denaro, puntando più sulle sfumature umane che non sulle invettive accusatorie, politiche ed economiche.

Dallas Buyers Club ha una sua forza viva anzitutto nella prova di Ron - un credibile “santo e truffatore”, del quale non vengono smussati i lati meno edificanti - e Rayon (Jared Leto), i suoi emaciati e consunti protagonisti , che sprizzano piccole scintille di buon cinema fin dal loro incontro tra i letti dell'ospedale.

Valleè non disdegna di regalarci una “carezza” in mezzo a molta sofferenza: occupa lo spazio di appena pochi secondi ma è piacevolmente evocativa un'immagine che vede stringere il campo su McConaughey, esitante nella penombra di luci artificiali e soffuse, mentre annusa la vita ed è circondato dal battito d'ali di mille farfalle.

martedì 28 gennaio 2014

HANNA HARENDT di Margarethe Von Trotta



Le elucubrazioni di Hannah Arendt: un tesoro del passato indispensabile per guardare al  futuro.

Voto ***½      8

All’inizio degli anni ’60 la scrittrice e filosofa ebrea Hannah Arendt venne inviata dal “New Yorker” in Israele a seguire il processo al gerarca Nazista Adolf Eichmann. Quel che fu pubblicato risultò essere qualcosa di molto più coinvolgente ed esplosivo che una mera cronaca dei fatti.

Oltre alle inquietudini provocate dalle singolari ipotesi sulle “origini del male”, fecero scandalo nei suoi scritti le allusioni ad una qualche parcella di responsabilità tra i troppo sottomessi capi Ebrei, individuando un “concorso di colpa” dell’abbassamento della morale collettiva e nel collasso generale del coraggio civile.

La regista Berlinese Von Trotta affianca al racconto per immagini una poderosa “proposta di riflessione”, costringendo in un angolo la nostra mente e la nostra coscienza ed obbligandoci ad elaborare, considerare e soppesare, chiedendoci un approccio ed un’analisi fuori dalle convenzioni.

Per approfondire meglio il solo “processo Eichmann” recuperate il bellissimo “Uno specialista”, film-documentario di Eyal Sivan del 1999; chi desiderasse confrontarsi direttamente con la Arendt si cimenti con il libro “La banalità del male” - Ed.Feltrinelli 2003 (titolo originale dell'opera “Eichmann in Jerusalem – A report on the banality of evil”).

Inevitabile trarre una fra tutte le possibili conclusioni: la cultura è nulla senza un pensiero vivo che la faccia arrivare a discernere tra bene e male, un tesoro inutile senza qualcosa che la tenga stretta ad una sua dimensione morale e ad una indispensabile responsabilizzazione.

domenica 26 gennaio 2014

NEBRASKA di Alexander Payne









Payne sa fondere bene tenerezza e cattiverie e nel tempo di un viaggio di qualche centinaia di miglia ci mostra l'essenza della vita.

Voto ***½       8½


Woody Grant (Bruce Dern) è un anziano signore di Billings, nel Montana, convinto di aver vinto un milione di dollari. Decide di recarsi negli uffici che dovrebbero liquidargli la somma, che hanno sede a Lincoln nel Nebraska, distante diverse centinaia di miglia da casa sua.

Il figlio Dave (Will Forte), in cuor suo ritiene che tutto questo non sia nient’altro che l’ultimo escamotage di un vecchio impegnato a procacciarsi un buon motivo per vivere e decide di accompagnarlo, cogliendo al volo l’occasione per passare un po’ di tempo assieme a lui.

Alexander Payne con “Nebraska” lascia affiorare le tematiche intimiste a lui care da sempre, proponendocele stavolta con un rigore formale differente o, “se preferite”, il migliore mai raggiunto, in virtù anche dell’ottimo lavoro di Phedon Papamichael alla fotografia , che illumina la sua storia con un bianco e nero affilato e risplendente.

I protagonisti sono persone normali che trasudano varia umanità, declinandola con ironia e colorite fioriture popolari. A completare un quadro di contagiosa e sfumata surrealtà ci sono vaghe note di noia, rimpianto e qualche punta di cattiveria.

La sceneggiatura di Phil Johnston e Bob Nelson si fa forte nei dialoghi scabri, essenziali e privi di ridondanza.

Payne è forte di una abilità rara nel dare concretezza visiva alla sua sensibilità e dimostra grande dimestichezza nel raccontare “inezie di grande rilievo”, sottolineando con il massimo della semplicità il brillare della vita nelle sue “fugaci interiezioni”.

Esemplare sembra essere la compiutezza raggiunta nel cantare le sventure e le impercettibili fortune dei personaggi minori, quelle “piccole esistenze rivelatrici” che scolorano nella folla, motivo per cui “Nebraska” si propone tre le espressioni migliori di un cinema capace di trarre da dettagli infinitesimali dei significati universali, ripescandoli nella confusione informe e rumorosa del mondo, laddove vagano spesso inosservati senno e saggezza, scontenti e scoramenti, dolori soffocati ai quali dare voce.

giovedì 16 gennaio 2014

THE UNKNOWN KNOWN di Errol Morris




Morris versus Rumsfeld: un duello in punta di fioretto, senza colpi bassi o scorrettezze. Giudice finale della contesa: lo spettatore.

Voto ***       7½

Per Donald Rumsfeld “l’unico modo per sapere è immaginare”! 

Purtroppo esistono “cose che credevi di conoscere ed invece non conoscevi”, ovvero “The Unknown known”. Si tratterebbe di tutte quelle informazioni che si erano immaginate come vere ed inoppugnabili ed invece con il tempo hanno mostrato la loro inconsistenza, forse le stesse che hanno fatto credere all’inevitabilità di un conflitto o di una guerra, al punto da arrivare a scatenarla.

Partendo dai suoi “snowflakes” (i “fiocchi di neve”, ovvero migliaia o forse milioni di promemoria scritti dallo stesso Rumsfeld) il regista Errol Morris costruisce un lungo film/intervista.

Chi si aspetta fendenti e colpi bassi rimarrà deluso: la tattica è quella di cercare di evidenziare i punti deboli e le contraddizioni, senza sfociare in un vero e proprio atto d’accusa.

Rusmfled si difende da par suo: è “maestro di doppiezza” e sfodera con disinvoltura tutte le sue qualità di showman e di affabulatore, sfiorando continuamente la mistificazione o cadendo nella menzogna vera e propria.

Si rischia di affogare nel “mare di parole” dell'ex segretario alla Difesa Americana: proprio questa l'evocativa l’immagine usata da Morris nella sua pellicola; azzeccate le sovrimpressioni con le dettagliate definizioni del vocabolario, il tutto sottolineato dalle musiche di Danny Elfman che cementano ogni cosa in un film, oppure un incubo, scegliete voi.

martedì 14 gennaio 2014

SANGUE di Pippo Del Bono


Un “rito disperato” in forma di “magma cinematografico”, che tenta di trattenere quel che irreversibilmente ci abbandona.

Voto ***      7½ 



La vita è un “grande mare”, dove tutti si incontrano ed ogni cosa continua, senza fermarsi mai. Forse persino la morte non è niente altro che un “passaggio” che altri hanno varcato prima di noi, camminando verso un misterioso ignoto.

Magari è addirittura questo il destino toccato a Margherita ed Anna, due donne mai conosciutesi in vita ma che potrebbero aver viaggiato assieme verso la morte: una era la madre di Pippo Del Bono, artista passionale e regista di questa pellicola, mentre l'altra era la compagna di uno dei leader storici delle Brigate Rosse, Giovanni Senzani.

I due uomini si conoscono per caso, quando l'ex terrorista (23 anni passati in carcere) si reca a vedere lo spettacolo “Racconti di Giugno”, e quasi casualmente, sedimenterà questo “Sangue” (Premio "Don Quijote" al 66° Festival di Locarno), cinema che entra dentro la vita e vita che scivola nel cinema.

Non uno sguardo necrofilo sull'inerzia e la decadenza del corpo, semmai l'azione incondizionata di un amore disperato che cerca di trattenere l'impossibile, contemplando le cose con afflizione ma senza morbosità, mentre il tempo diluisce dentro un imbuto oscuro, nel quale entrare è un atto irreversibile.

Del Bono cerca di compenetrare l'incomprensibile: vuole sondare l'inaccessibile e nel mentre “esondano” i suoi sentimenti. Catarsi più che liberazione, cercando di sopravvivere al veleno che dilania la carne di chi abbandona e di coloro che rimangono.

Sangue” è un cinema viscerale che fonde teatro e realtà. E' una riflessione generosa sulla vita e la morte, su fede e religioni, sull'essere umano, su inferni reali e paradisi inventati, sulla rivoluzione e la lotta armata, certo vaga ed imprecisa ma densa di calore e vogliosa di offrire e condividere; forse distante da un risultato cinematografico compiuto ma encomiabile nella sua passione prorompente e per la libertà attraverso la quale va oltre gli squallidi tabù sulla morte o sugli anni di piombo, forte di un coraggio cristallino che rende di fatto incomprensibile qualsiasi becera polemica abbia accompagnato il cammino di questa pellicola.



domenica 12 gennaio 2014

DISCONNECT di Henry Alex Rubin


Storie incrociate e “collisioni” inaspettate. Contiguità sottovalutate e pericolose tra mondo virtuale e realtà.


Voto **      6

Sassy 777” scorre on line la lista dei desideri di “Boitoi18”, “Cin8380” condivide in rete il suo dolore con “Fear and Loathing” mentre “BenBoyd” fantastica avventure con l'immaginaria “Jessica Rhony”.

Ma dietro i freddi “NickName” si celano (quasi sempre...) esseri umani in carne ed ossa e presto o tardi la virtualità finisce per collidere con la realtà.

Disconnect” di Henry Alex Rubin dipana la sua trama attraverso tre (quasi quattro...) storie incrociate - sempre più un vezzo piuttosto che una vera e propria necessità della narrazione - con sceneggiatura ad opera di Andrew Stern.

Punta l'indice sui pericoli della rete (le truffe, le false identità, lo sfruttamento dei minori) ma ancora di più vuole sottolineare come questa (paradossalmente?) sia talvolta l'ennesimo tassello che contribuisce alla rarefazione dei rapporti umani ed a gettarli in crisi.

Non pare esserci comunque un intento castigatore e moralista, soprattutto considerando che nel contesto generale degli avvenimenti sarà proprio il mezzo virtuale al tempo stesso ragione ed in qualche misura soluzione dei mali.

Disconnect” è un film sulle "vicinanze solitarie", sui sensi di colpa che lentamente affiorano e le conseguenti collisioni tra le persone e nel suo insieme porta la mente a ripescare il "Crash" di Paul Haggis (tre Oscar e due Golden Globe nel 2006), del quale non regge il paragone in quanto a pathos e spessore.

Girato e pensato in maniera gradevole, molto meticolosa ed organizzata, riesce ad evitare di incespicare troppo negli incroci farraginosi, nondimeno divenendo in un istante cinema masticabile, in poco tempo digerito e presto dimenticabile.







giovedì 9 gennaio 2014

IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì


Paolo Virzì descrive l'Italia di oggi, avvolgendola in atmosfere cupe ed usando un tocco meno leggero del solito.


Voto ***      


Virzì riadatta e trasferisce dal Connecticut ad Ornate in Brianza – paese immaginario del Nord Italia – un romanzo di Stephen Amidon ed attorno ad un avvenimento secondario - quanto simbolico e significativo - fa affiorare i tratti caratteriali dei suoi protagonisti, le loro scorrettezze, i falsi candori, le necessità vere o finte e le disperate virtù.

Dei cento colori scoppiettanti delle sue precedenti commedie il regista Livornese trattiene solamente “un po' di giallo e di nero” e confina il suo racconto in un perimetro delimitato, dentro il quale si agitano “spiriti” claustrofobici ed invisibili: ansia, competizione ed incertezze, mercati “volubili”, gli impatti inaspettati delle “maggiorazioni sballate”, rendite instabili per “posizioni” incerte.

La pellicola è divisa in tre capitoli che ogni volta ripercorrono quanto accaduto – e non soltanto – cogliendone la prospettiva dalle diverse angolazioni dei protagonisti, fino ad arrivare all'esito finale.

Più che cementare il filone dell'investigazione e del mistero viene sfruttato tutto quanto la situazione generale può offrire per osservare introspettivamente le persone dal punto di vista umano ed offrire nel contempo un quadro complessivo del Paese-Italia e delle azioni/relazioni di chi ci vive e ne disegna il frastagliato profilo: aspiranti attrici che tempo addietro hanno rinunciato alla loro occasione, “dilettanti della realtà”, finti innamorati della prosa e falsi romantici della vita, recensori annoiati e caustici della “Pre-Alpina”.

Lontano da set e luoghi amici, da vecchi vezzi ed abitudini collaudate, Virzì si abbandona scientemente ad un fruttuoso “spaesamento” e si incammina con successo verso un orizzonte stilistico differente, schierando in campo buoni e cattivi senza distinzione alcuna di casta o di classe sociale, lasciandoci osservare come la posta in gioco venga vinta o perduta nel rimescolarsi di avvenimenti concatenati e sui quali spesso non è possibile avere il controllo assoluto, alludendo al “Capitale umano” non solo come la negoziazione del valore trattato quale risarcimento dalle compagnie assicurative ma anche come il prezzo salato che puo' trovarsi a pagare un singolo ragazzo o persino una intera Nazione, sulla cui rovina altri hanno scommesso senza scrupoli.   


martedì 7 gennaio 2014

CLIP di Maja Milos

Tremendo e senza censure: il ritratto di Maja Milos della gioventù Serba è un monito anche per le nostre periferie.

Voto: ***        7





Sentimenti in gabbia, incoscienza e stordimento, umiliazione, degrado e meccanica ripetizione. Dalla Serbia “con squallore” l'agghiacciante spaccato di una generazione dalla vita frammentata e disordinata, come le ossessive clip che continuamente filma attraverso l'obiettivo degli inseparabili telefoni cellulari, in uno stato di noia (e)statica.

Premiato nel 2012 al Festival di Rotterdam con il Tiger Award “Clip”, film della regista trentenne Maja Milos, descrive senza remore e con estrema efficacia i giovani “in latitanza permante da loro stessi”, incapaci di toccarsi “dentro” o di ardere nel contatto fisico, ignari di come comunicare o consolarsi e che sanno tirarsi su il morale solo offrendosi l'un l'altro l'ennesima pista di cocaina; usano il loro corpo come fosse solo un accessorio, distante dal loro tessuto arterioso e totalmente disconnesso dai propri sentimenti.

La scelta stilistica di “Clip” è coraggiosa, estrema nella forma per quel che sono i canoni consueti del cinema commerciale. Lo sguardo spietato nel descrivere il mondo dell'adolescenza ricorda Larry Clark o Harmony Korine ma senza il loro compiacimento voyeuristico, né l'appariscenza.

Questi ragazzi non sembrano privi di sentimento ma incapaci di averne consapevolezza, di decodificare il mondo e se stessi, del tutto inadatti a perseguire e realizzare le loro stesse aspettative. 

Sono in gabbia ma illusi di esser liberi, a volte collidono con ferocia e usano violenza tra di loro. Sboccano sangue e con le labbra rosse di rabbia o che alitano desiderio ora si baciano: certamente torneranno poi a picchiarsi oppure a baciarsi ancora.

Forse davvero non avvertono nessun dolore, ma nemmeno hanno qualcuno accanto che sia in grado di dirgli che potrebbero cominciare ad esser felici se solo potessero provarne.

mercoledì 1 gennaio 2014

AMERICAN HUSTLE di David O.Russel










Una storia di truffatori, criminali, politici corrotti ed agenti in cerca di gloria. O.Russel non perdona solo gli ingordi ed i presuntuosi.

Voto ***½      8

Irving Rosenfeld (Christian Bale) e Sidney Prosser (Amy Adams): la musica di Duke Ellington li unisce e ben presto scopriranno la loro particolare attitudine a truffare il prossimo. Un bel giorno però gli capiterà di raggirare il cliente sbagliato e si imbatteranno in Richie Di Maso (Bradley Cooper), un incorruttibile agente dell'F.B.I. che, tramite il loro aiuto, proverà a metter a segno una retata colossale

Strizzando l'occhio a “La Stangata” ed a Martin Scorsese, vestendo di piccole buffonerie le ambientazioni classiche del genere e regalandogli il tocco caratteristico del suo stile vagamente stralunato, O.Russel sfodera una deliziosa commedia, che utilizza come canovaccio il caso “Abscam”, un vero scandalo di favori, mazzette e mafia della fine degli anni settanta.

I dialoghi sono scanditi con il metronomo, beffardi ed ironici ma sempre saldamente piantati nella mestizia di realtà complicate ed afflittive, a tratti lievemente “allucinati”; puntualissimi nel mettere in risalto – senza dar troppo nell'occhio – le frustrazioni e le fragilità dei protagonisti, gli umanissimi difetti, le loro ridicole e presuntuose ambizioni, le tragiche e commoventi incertezze.

O.Russel sceneggia assieme ad Eric Warren Singer il suo lavoro e spadroneggia con destrezza un film corale che con grande facilità potrebbe sfuggirgli di mano, declinando nuovamente i temi delle sue più recenti pellicole, ovvero le esistenze deluse in cerca di riscatto, la serendipità e l'ottimismo, la forza della volontà o meglio del “potere dell'intenzione”.

Come tratta da un “Vangelo dei criminali non incalliti”, “American Hustle” in controluce potrebbe leggersi anche come una sorta di “parabola sporca e divertente”, costruita su piccole e grandi nefandezze, dove i fatti vengono visti anche attraverso una lente che rifugge il benpensante conformismo e culminano in una morale che non premia i “soliti buoni” e sparge generosi aloni di umanità sui cattivi, non mostrando nessuna pietà solamente per l'ingordigia e la boriosa presunzione.