La
storia vera dell’incontro di James Picard con l’antropologo
George Devereaux.
Voto
*** 7
James
Picard (Benicio Del Toro) è un
nativo americano della tribù dei “BlackFoot”. Soffre di gravi
disturbi (cecità temporanea, perdita dell’udito, fortissime
emicranie), forse dovuti ad una ferita al cranio che si è procurato
durante la seconda guerra mondiale.
Così da Browning nel Montana -
dove vive in un ranch assieme alla sorella – si
reca al “Winter” di Topeka, un ospedale del Kansas per
“cervelli fuori uso”.
Dopo
accurati controlli risulterà essere un “invalido in perfetta
salute” ma, per fugare gli ultimi dubbi al riguardo di una sua
ipotetica schizofrenia, verrà chiamato l’antropologo e pioniere
dell’ “etno-psichiatria” Georges Devereux (Mathieu Amalric),
uno studioso della cultura dei “Mohave”, con i quali ha
convissuto per ben due anni nel deserto.
Il
film di Desplechin ruota praticamente tutto attorno all’ incontro
di questi “due diversi”: un mite e taciturno indiano ed un
eclettico e provvidenziale
medico. Il primo vive in un
mondo di bianchi dopo aver conosciuto la “riserva” ed ora, ad
ondate liberatorie di un’ora al giorno, consegna tutti i suoi
incubi ed i suoi ricordi nelle mani di un professore avanguardista
della psicanalisi, che è guardato da alcuni suoi colleghi con un
certo scetticismo.
Quest’ultimo
- calatosi anche nel ruolo di “sciamano” e “castoro
protettore” (…!...) - prende febbrilmente appunti, cercando di
fare del suo meglio per scoprire le cicatrici invisibili del suo
paziente e correggere gli errori del passato.
Basato
su una storia vera e sul libro dello stesso Devereux “Psichotherapy
of a plains indian” (Psicoterapia di un indiano delle pianure)
il film di Desplechin è tutto a
“trazione verbale” e si affida alla più che valida
interpretazione di Del Toro ed Amalric.
Chi
non ama molto i film dove gli attori frequentemente cedono il passo
alle parole si astenga dalla visione. Tutti gli altri si godano pure
il lavoro di questo regista
Francese capace di recuperare storie marginali ed interessantissime.
“Jimmy
P.” potrebbe risultare ostico e persino monotono se non se ne
arrivassero a cogliere le molte “rivelazioni” di diversa natura,
che scaturiscono dalla fitta chiacchierata tra i due protagonisti. Le
risposte sembrano non arrivare mai ed invece sono innumerevoli,
sparse ovunque e non solo nell’evidenza dell’epilogo.
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