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domenica 23 febbraio 2014

12 ANNI SCHIAVO di Steve McQueen




              




Le lacerazioni della carne 
soverchiano l’anima “possibile” del film: McQueen un passo indietro rispetto alle sue potenzialità.

Voto ** 6½

Il nuovo film di Steve McQueen è basato sulla storia vera di Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor), talentuoso violinista che nel 1841 viveva in America da uomo libero, nella contea di Saratoga (New York). Con l’inganno di due falsi agenti dello spettacolo fu rapito e ridotto in catene fino al 1853. Suo il libro “12 anni schiavo”, da cui il titolo della pellicola.

Sulla durezza della schiavitù e la collera del “padrone” come condizione costante non nutrivamo dubbi: le schiene martoriate dalla frusta e le umiliazioni che ci propone questa pellicola rinverdiscono le nostre certezze, senza concederci sconti.

Piaghe, lacrime, urla di rabbia e di dolore, volti sofferenti: supplicare la morte o comprare la pietà sono chimere avvelenate o impossibili, la libertà talvolta ha un prezzo ma non è mai un diritto.

Tutto cammina su binari che difficilmente potrebbero procedere altrimenti e che purtroppo immaginavamo, eppure ben presto ci troviamo come disorientati e quasi annoiati, ad interrogarci su cosa non funzioni.

Forse la prova del protagonista Ejiofor, dal quale pretenderemmo si affacciassero chissà quali abissi imperscrutabili dell’animo umano? E’ buona la sua interpretazione ma è solo un tiepido antagonista per il fiero e “cristologico” Bobby Sands/Michael Fassbender, visto nel capolavoro “Hunger” (qui è nel ruolo del sadico schiavista Edwin Epps).

Manca il contraltare che accompagnava l’ostentazione dei “corpi” dei precedenti lavori di McQueen: la tensione tagliente e palpabile delle carceri Inglesi, le atmosfere angosciose e disturbanti di “Shame”. Osserviamo tutto quanto accade ma quasi mai oltrepassiamo davvero le barriere emotive, poco ci addentriamo nelle dinamiche psicologiche.

Riassume i conflitti del contesto generale uno scambio fin troppo “elementare” di idee nel dialogo tra l’abolizionista Samuel Bass (Brad Pitt) e Northup, distante anni luce dal possente “incrocio verbale” tra prete e detenuto del già citato “Hunger”.

Troppa realtà “esposta al solo sguardo”, con poca altra rielaborazione. Sofferenze e pensieri sono sopraffatti dalle lacerazioni della carne e arriviamo senza sussulti alla fine, mentre avremmo voluto sapere molto di piu’ “del viaggio” che ci fino a quel punto ci ha condotto.


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