Le lacerazioni della carne
soverchiano l’anima “possibile” del
film: McQueen un passo indietro rispetto alle sue potenzialità.
Voto
** 6½
Il
nuovo film di Steve McQueen è basato sulla storia vera di Solomon
Northup (Chiwetel Ejiofor), talentuoso violinista che nel 1841 viveva
in America da uomo libero, nella contea di Saratoga (New York). Con
l’inganno di due falsi agenti dello spettacolo fu rapito e ridotto
in catene fino al 1853. Suo il libro “12 anni schiavo”, da cui
il titolo della pellicola.
Sulla
durezza della schiavitù e la collera del “padrone” come
condizione costante non nutrivamo dubbi: le schiene martoriate dalla
frusta e le umiliazioni che ci propone questa pellicola
rinverdiscono le nostre certezze, senza concederci sconti.
Piaghe,
lacrime, urla di rabbia e di dolore, volti sofferenti: supplicare
la morte o comprare la pietà sono chimere avvelenate o impossibili,
la libertà talvolta ha un prezzo ma non è mai un diritto.
Tutto
cammina su binari che difficilmente potrebbero procedere altrimenti e
che purtroppo immaginavamo, eppure ben presto ci troviamo come
disorientati e quasi annoiati, ad interrogarci su cosa non funzioni.
Forse
la
prova del protagonista
Ejiofor,
dal quale pretenderemmo si affacciassero chissà quali abissi
imperscrutabili dell’animo umano? E’
buona la sua interpretazione ma è solo un tiepido antagonista per il
fiero e “cristologico” Bobby Sands/Michael Fassbender,
visto nel capolavoro “Hunger” (qui è nel ruolo del sadico
schiavista Edwin Epps).
Manca
il contraltare che accompagnava l’ostentazione dei “corpi” dei
precedenti lavori di McQueen: la tensione tagliente e palpabile delle
carceri Inglesi, le atmosfere angosciose e disturbanti di “Shame”.
Osserviamo tutto quanto accade ma quasi mai oltrepassiamo davvero le
barriere emotive, poco ci addentriamo nelle dinamiche psicologiche.
Riassume
i conflitti del contesto generale uno scambio fin troppo “elementare”
di idee nel dialogo tra l’abolizionista Samuel Bass (Brad Pitt) e
Northup, distante anni luce dal possente “incrocio verbale” tra
prete e detenuto del già citato “Hunger”.
Troppa
realtà “esposta al solo sguardo”, con poca altra
rielaborazione.
Sofferenze e pensieri sono sopraffatti dalle lacerazioni della carne
e arriviamo
senza sussulti alla fine, mentre avremmo voluto sapere molto di piu’
“del viaggio” che ci fino a quel punto ci ha condotto.
Nessun commento:
Posta un commento